G. Venturi – Crescere con un gatto

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Quando avevo tre anni, mio nonno Guglielmo (tutta la famiglia di mia madre aveva nomi che cominciavano con la G) mi regalò un gattino tigrato, che aveva tre mesi. Il gattino mi accolse come “padrone”, e da allora, e finché campò, non mi lasciò mai. I gatti hanno infatti una fedeltà assoluta, anche se del tutto diversa da quella dei cani: la loro è una scelta autonoma. Fu il mio gatto a farmi conoscere il mondo, specie quello del cortile e dell’orto; va detto che abitavamo in una zona che adesso si definirebbe di campagna, anche se non del tutto agricola: le nostre famiglie rappresentavano infatti le prime colonie in un territorio fino a quel momento quasi solo agricolo, come indicano chiaramente a tutt’oggi i nomi delle strade; sarebbero stati gli anni Cinquanta a portare una prima, forte, limitazione a tale caratteristica. A distanza di molti anni, sono sempre più convinto che vivere con un gatto sia stato alla base di tanti modi di guardare, di attenzioni, che mi sono rimaste; a cominciare dalla passione per il recupero di piante abbandonate, la attenzione alle formiche, la voglia di arrampicarsi sugli alberi – ma il mio gatto vinceva sempre; e tanti altri aspetti che non sto a raccontare. Lui era sempre dove ero io, e la sua passione per i libri era parallela al mio uso di libri e carte. Mi sono convinto che ai gatti piace l’odore della stampa, visto che dormiva in uno dei ripiani della libreria. Che poi la scelta di un gatto al posto di un cane sia un modo di guardare al mondo, mi sembra probabile, ma non vorrei urtare la suscettibilità dei “canidi”, che, evidentemente, l’altra esperienza non l’hanno fatta. (Racconto tratto da I minimi 2)