G. Venturi – L’ottomana

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Divano, canapé, ottomana, sultana, turca, sofà … quanti nomi per la stessa suppellettile! Mia nonna, che parlava usualmente l’idioma locale, lo chiamava “tomana”, e, quando salivo da lei, si sedeva con me sulla ‘tomana’ per raccontarmi le storie. Lo faceva, appunto, in un misto di bolognese e italiano, come le aveva imparate, alla fine dell’ Ottocento. Me ne è rimasto in memoria solo qualche frammento; e così per le filastrocche. Oggi, le riviste di cultura “popolare” le raccolgono dalle signore anziane, prima che vadano interamente perdute, mettendole anche a raffronto. Quando mi capita di leggere quelle pagine, ritrovo spesso qualcosa dei miei ricordi sepolti. Allora era assolutamente vietato a scuola usare il “dialetto”, e mio nonno (il padre di mia madre) si era adeguato, vietando assolutamente a mia madre di usare quel linguaggio, che pure lei sentiva continuamente, e non solo da sua madre. A quel tempo, il “dialetto” infatti lo usavano tutti, con tutte le variabili che oggi, da tempo, si cerca di codificare, legate alla zona di provenienza: la montagna, la pianura, e di quale parte. La città dentro le mura faceva storia a sé, a sua volta ripartita in quartieri. Chissà dov’è finita quella “tomana”, che certo, come si dice, ne avrebbe da raccontare … (Racconto tratto da I minimi 2)